web

venerdì 18 gennaio 2013

Ann Anderson o Anastasia Romanov?

Berlino,febbraio 1920.
 Una donna in evidente stato confusionale viene ricoverata nell’ospedale cittadino. E’ una ragazza dall’apparente età di vent’anni,e presenta chiari sintomi di un tentativo di suicidio. Non è in grado nemmeno di ricordare la sua identità,e viene pertanto accolta e curata in ospedale.

Dopo qualche giorno inizia a ricordare,e racconta una storia che ha dell’incredibile. Dice infatti di essere Anastasia Nikolaevna Romanova,quarta figlia dello zar Nicola II e della regina Alessandra,scampata all’eccidio di Ekaterinburg,dove hanno trovato la morte tutti i famigliari dello zar.Alla donna viene dato un certo credito,in quanto il regime bolscevico,che ha confermato l’esecuzione dello zar e della moglie,non ha mai citato tra le vittime le sorelle Romanov e lo zarevic Alessio.


La donna ricorda solamente qualcosa del suo passato. Per i medici che la visitano,è l’effetto dello choc subito durante l’esecuzione,alla quale lei sembra essere scampata.Racconta di aver finto di essere morta,per poi essere caricata su un carro,dove,con l’aiuto di una famiglia di contadini è riuscita a scappare nascondendosi nelle campagne,per poi arrivare,dopo un lungo peregrinare,a Berlino. Racconta però fatti che solo la vera principessa Anastasia poteva conoscere anche se rifiuta categoricamente di parlare in russo.

 Inizia così una lunga e estenuante battaglia per il riconoscimento della sua identità,contestata soprattutto dagli ultimi Romanov,poco convinti dell’identità della donna. La quale,peraltro,sembra affetta da seri problemi psichici.La battaglia legale prosegue per anni,senza che porti a nessuna novità di rilievo,soprattutto per la ferma ostilità dei Romanov,convinti che la donna miri solo all’ingente eredità dello zar.

Nel 1969 Ann Anderson,nome che la ragazza ha assunto in attesa del riconoscimento ufficiale della sua identità,si sposa con John Manahan e lo segue negli Stati Uniti,sempre continuando,ostinatamente,a rivendicare il diritto a portare il nome dei Romanov. 

 Nel 1984 Ann muore,senza che la sua causa abbia avuto alcun riconoscimento.

Nel frattempo,negli anni successivi,accadono fatti che chiariranno in maniera decisiva la vicenda.
 Nel 1989 uno scienziato e storico russo, Gelij Rjabov,annuncia di aver ritrovato ad Ekaterinburg, i corpi di tutti i Romanov sterminati nel 1918,con l’eccezione dei corpi dello zarevic Alessio e di Anastasia. Il che sembra rilanciare l’idea che Ann Anderson potesse,in effetti,essere la granduchessa Anastasia.
Nel 1994 però viene messo a confronto il Dna della Anderson con quello dei Romanov. Il risultato è inequivocabile:Ann Anderson non aveva alcun carattere in comune con la famiglia reale russa. La donna venne identificata,pur con molti dubbi,in Franziska Schwanzkowska,una donna di origini polacche,malata di mente e fuggita dalla Polonia.

Nonostante l’esito della prova del Dna,sono in molti coloro che ritengono Ann Anderson come la vera Anastasia Romanov.
 Questa convinzione si basa su alcuni dati di fatto incontrovertibili:la donna era a conoscenza di particolari assolutamente segreti sulla corte,aveva un neo nello stesso punto in cui l’aveva Anastasia,aveva lo stesso difetto a un dito della mano.Ed era stata riconosciuta come la granduchessa da diversi esponenti della corte russa,scampati ai massacri della rivoluzione d’ottobre.

 La morte di Ann ha però di fatto chiuso la vicenda,e a meno di sensazionali e improbabili colpi di scena,la morte di Anastasia Romanov è da imputare alla fucilazione di quel giorno ad Ekaterinburg.Il corpo della granduchessa,cremato,è,con quello di Alessio,l’unico mancante nella chiesa dei santi Pietro e Paolo di San Pietroburgo,dove riposano gli ultimi zar di Russia con la loro famiglia,oggi canonizzati dalla chiesa ortodossa russa.

La colonia perduta di Roanoke

Mappa di John White, 1585
Al largo della Carolina del nord c’è una piccola isola,Roanoke.
Davvero piccola,con i suoi 19 chilometri di lunghezza e i circa 5 di larghezza.
Un fazzoletto di terra,davvero poco importante,anche storicamente,non fosse per il fatto che è stato il secondo insediamento inglese in America,attorno al 1583,ma anche e soprattutto per un mistero storico mai risolto,quello della sparizione di 116 fra uomini,donne e bambini,della cui sorte non si è mai saputo più niente. Questa storia inizia con un ardito navigatore inglese,sir Walter Raleigh,cui la regina vergine,Elisabetta I,aveva affidato il compito di colonizzare la Virginia,del cui territorio faceva parte,all’epoca,Roanoke.
Nel 1505 proprio Raleigh tentò una prima colonizzazione dell’isola,che ebbe un esito assolutamente disastroso;i suoi uomini,sbarcati sull’isola,ebbero da subito problemi con i nativi,che mal sopportavano la presenza di gente straniera sulla propria terra,a cui va aggiunta la inevitabile diffidenza verso gente che non si faceva scrupolo nel depredare di viveri e bestiame gente che viveva solo grazie a quel poco che la natura offriva.
Gli scontri continui,le avverse condizioni climatiche finirono per indebolire il primo insediamento,tanto che di li a poco sir Francis Drake,famoso ex pirata e ammiraglio della flotta inglese fu costretto ad evacuare i superstiti,lasciando solo una guarnigione di 15 uomini a difesa del fortilizio presente sull’isola,in attesa di un nuovo insediamento.
Nel 1587 Raleigh tornò a Roanoke Island,con un nuovo consistente gruppo di persone;ma del presidio umano lasciato da Drake non venne trovata alcuna traccia.
Sir Walter Raleigh

Gli uomini,probabilmente uccisi dai nativi,erano scomparsi nel nulla;era il luglio del 1587,e di li a poco sarebbe nata Virginia,la prima bimba inglese a nascere sul suolo americano.
Virginia era la nipote del governatore dell’isola,White.nominato da Elisabetta I,che aveva seguito la nuova spedizione di Raleigh.

Il tesoro della regina Hethepheres


Le più grandi scoperte archeologiche sono state, nel passato, anche frutto del caso o, se vogliamo, della fortuna.
 Basti pensare alla scoperta più importante di sempre, come la tomba di Tutankamon, al ritrovamento della venere di Milo o del busto di Nefertiti. 

Non fa eccezione quella della tomba di Hetepheres, regina d’Egitto della IV dinastia, moglie di Snefru (o Snofru) e madre del più enigmatico faraone della millenaria storia d’Egitto, Cheope.
 Una tomba ben visibile, conosciuta da almeno tre millenni, eppure inspiegabilmente trascurata; una tomba che sorge ad est della grande piramide, e che è conosciuta dall’antichità, assieme alle altre che la affiancano, come la tomba della regina. 

 Ed era una regina, Hetepheres. Moglie di Snofru, secondo Manetho o Manetone, il fondatore della IV dinastia, quella che diede all’umanità la testimonianza più preziosa dell’ingegno e della cultura egiziana, costituita anche dalle grandi piramidi e dalla Sfinge, e da quel poco che è sopravvissuto alle spogliazioni dei ladri di tombe, alle quali non si è sottratta, parzialmente, anche la tomba della grande regina. 

Figlia, con molte probabilità, di Huny, ultimo faraone della dinastia precedente, visse accanto a Snofru, faraone la cui fama era nell’antichità molto vasta. E' l’uomo che costruì due piramidi di oltre 90 metri di altezza a Dahsur, località vicino a Saqqara, famosa per la presenza della piramide a gradoni di re Zoser, progettata e costruita dal Leonardo d’Egitto, Imhotep.
 Ed è anche il faraone ricordato per aver riportato due grandi vittorie sui popoli vicini, una in Nubia e l’altra in Libia, vittorie che fruttarono un colossale bottino in uomini e bestiame.

Alcuni monili delle regina

 Hetepheres visse quindi in un momento storico straordinario, in cui il livello della civiltà egizia cresceva esponenzialmente; eppure di lei si conosce ben poco, per una serie di motivi. 
Il più importante dei quali è l’abituale ritrosia dei biografi egizi a focalizzare l’attenzione oltre la figura del faraone; inoltre, cosa più importante, il grandissimo lasso di tempo passato dalla morte della regina ad oggi.
 Non dimentichiamo, infatti, che la stessa cronologia dei re egizi ha richiesto uno sforzo sovrumano per essere ricostruita, partendo spesso dalla lista di Manetho o dalla Pietra di Palermo, a loro volta incompiute o meglio, giunte a noi in forma incompleta. 
Solo il lavoro paziente degli archeologi, la loro passione e la loro competenza ha permesso di far luce su un periodo altrimenti condannato all’oblio.

Basti pensare, per esempio, che della vita di Cheope, il costruttore della grande piramide, conosciamo poco e nulla; in realtà non conosciamo nemmeno il suo aspetto, visto che a noi è arrivata solo una minuscola statuetta che forse lo raffigura.
Una donna, Hetepheres, che sicuramente ebbe influenza a corte e sulle decisioni del marito, e che alla sua morte venne sepolta con tutti gli onori nella piana di Giza, dove sarebbero sorte, di li a poco, le tre piramidi di Cheope, Chefren e Micerino.

Il suo nome sarebbe rimasto con ogni probabilità menzionato solo come regina consorte se il caso, come già detto all’inizio, non avesse deciso di aiutare un anonimo fotografo, Mohamadien Ibrahim, che lavorava, quel 2 febbraio 1925 per l’equipe del professor George Andrew Reisner, archeologo dell’Università di Harvard davanti alla tomba della regina.

 Mentre montava il cavalletto per effettuare delle riprese, urtò accidentalmente contro la parete di una piccola buca. Si chinò per vedere se il cavalletto aveva dei danni e vide uno strato di intonaco affiorare a pelo dalla buca.
 Incuriosito, decise di scavare nella piccola fossa, e vide che lo strato era posto a protezione di un’apertura; lasciò tutto com’era e corse a chiamare Alan Rowe che era assistente di George Reisner 

G700 x, come venne denominato il ritrovamento, era in realtà l’anticamera della tomba della regina Hetepheres; era stato risigillato, perché, come scopriranno in seguito gli archeologi di Reisner, in un remoto passato i soliti ladri di tombe erano penetrati all’interno. E l’effrazione era avvenuta durante il regno di Snefru, che aveva fatto sistemare e risigillare la tomba.

A marzo del 1925 le speranze di Reisner e della sua equipe divennero certezze: una tomba probabilmente inviolata della IV dinastia stava per rivelare i suoi misteri dopo 3000 anni.

 A venticinque metri sotto terra giaceva il sarcofago della regina: gli archeologi stabilirono che si trattava di Hetepheres, ma ricevettero una prima cocente delusione, perché all’interno dello stesso non c’era il corpo mortale della donna 
 Dopo la naturale delusione, tuttavia, gli studiosi si resero conto immediatamente della portata del ritrovamento: all’interno c’era il tesoro più importante di sempre, fatto non di oggetti preziosi, o almeno non soltanto di quelli, ma di oggetti d’uso comune, di offerte agli dei, che permisero di gettare uno sguardo inedito su usi e costumi di 30 secoli addietro.

 Come racconta Reisner, l’emozione fu davvero enorme:

“Questa tomba intatta ha rappresentato per la prima volta nella storia degli scavi egizi, un’occasione di studio della sepoltura di grande personaggi, di un periodo antecedente 1500 anni le tombe reali del nuovo regno. (…)Osservando dentro da una piccola apertura, abbiamo visto un bel sarcofago di alabastro regolarmente coperto. Il sarcofago era decorato con parecchi strati di oro intarsiati e sul pavimento c’era la massa confusa di mobili e oggetti d’oro.„ 

 Una descrizione che ricorda quella emozionante , lapidaria, fatta da Carter qualche anno dopo davanti ad una scena per certi versi simile, un muro d’intonaco che copriva da secoli la tomba di un oscuro faraone, Tutankamon: “Vedo cose meravigliose” 

Ma, al momento, la scoperta dell’equipe di Reisner avevano una valenza ed una portata straordinaria. Dopo aver dovuto sopportare i rischi di stabilità del sito, con un crollo che mise in pericolo la vita degli archeologi, gli stessi si trovarono di fronte al rischio di deterioramento dei reperti. 
Se per i manufatti d’oro il pericolo era inesistente, con i reperti in legno e in altri materiali il rischio concreto era quello di vedere svanire in un attimo secoli di storia.
Con pazienza certosina, gli archeologi restituirono alla storia un letto con baldacchino intarsiato d’oro, piatti, oggetti d’oro, uno scrigno in cui riporre i gioielli che sarebbero serviti alla regina Hetepheres per affrontare il suo viaggio nell’aldilà e renderla bella, una lettiga per il suo trasporto…. un tesoro senza precedenti e sopratutto inestimabile dal punto di vista storico. 

 Quello che tuttavia incuriosì di più gli archeologi fu lo stato di confusione che regnava all’interno, così come appariva inesplicabile la mancanza del corpo della regina. Quello che tuttavia incuriosì di più gli archeologi fu lo stato di confusione che regnava all’interno, così come appariva inesplicabile la mancanza del corpo della regina. 

Reisner ipotizzò che alla morte di Hetepheres la stessa fosse stata sepolta nella tomba, ma dopo un tentativo di furto, il marito avesse deciso di trasportare il corpo in un posto più sicuro. Lo stesso Reisner ipotizzò dell’altro, come la misteriosa sparizione del corpo durante il trasporto alla tomba effettiva, ma sono solo teorie.

 Quello che accadde non lo sapremo mai, a meno di ritrovamenti particolari, come biografie su papiro o altro. Quello che davvero conta è la mole di reperti ritrovati, che ancora oggi risultano essere i più importanti attribuibili alla IV dinastia.
 La tomba di Hetepheres continua a mantenere i suoi segreti, vecchi di millenni, così come il buio avvolge la figura di questa regina, diventata famosa, come Tutankhamon, solo per il ritrovamento degli arredi della sua tomba.        

Ai confini del mondo conosciuto


Uno dei primi,grandi viaggiatori dell’antichità fu un uomo originario di Marsiglia,mercante e geografo,vissuto a cavallo fra il 380 e il 310 Avanti Cristo.
Il suo nome era Pitea.
Un uomo che ebbe dalla sua,oltre ad una insaziabile voglia di conoscere,la fortuna di aver ricevuto un’educazione che gli aveva permesso di imparare le lingue,cosa che aveva messo a profitto viaggiando e conoscendo genti e culture.
Se è vero che non abbiamo dati diretti sulla sua vita,ne conosciamo per fortuna le gesta e soprattutto i viaggi che fece,che descrisse in un’opera purtroppo perduta,l’Oceano,una summa fondamentale di cognizioni geografiche e d esplorazioni,anche se,e va detto per dovere di cronaca,i grandi dell’antichità come Polibio e Stradone,altro grande navigatore,dubitarono dell’effettivo svolgimento dei suoi viaggi.
Che oggi la critica storica considera avvenuti realmente,visto che Pitea raccontò,con molti particolari,il sole di mezzanotte,l’uso della stella polare per determinare la latitudine e soprattutto una descrizione molto fedele della circumnavigazione della Gran Bretagna,da lui stimata al 2% in meno della sua effettiva superficie.
Probabilmente il viaggio più importante,quello che lo portò fino ai confini del mondo conosciuto,avvenne sotto il patrocinio di Alessandro il Macedone,un altro uomo dalla fame insaziabile di voglia di avventura e conoscienza.
Pitea si spinse molto lontano dalla Gran Bretagna,affrontando un mare denso di insidie e di pericoli;siamo nel 350 circa Avanti Cristo,la navigazione avviene con imbarcazioni non di certo strutturate per affrontare l’oceano e le sue insidie.
Avventuratosi in una zona assolutamente sconosciuta.
Pitea descrisse il mare ghiacciato,la terra quasi completamente avvolta dalle nebbie,con il sole visibile per non più di tre-quattro ore al giorno;descrisse gli usi e costumi dei popoli che vivevano in quelle zone ,abili nel produrre grano e miele.
Chiamò quella terra Thule (forse le Faroer,forse l’Islanda o le Shetland) . L’importanza dei suoi viaggi è capitale,anche se,come ripeto,ne abbiamo un resoconto purtroppo di seconda mano;difatti il suo manoscritto originale,Oceano,andò perduto come la stragrande maggioranza delle conoscenze dell’umanità,nell’incendio che devastò la biblioteca di Alessandria.
Influenzarono quasi tutti i grandi storiografi del passato,oltre ai viaggiatori dei secoli successivi.
Stradone,per esempio,pur non credendo alla veridicità dei fatti,spesso citò il grande navigatore e le sue scoperte,ammettendone implicitamente la rilevanza.
Un altro grande del passato,Eratostene,astronomo fra i più validi,consultò e usò i suoi libri proprio presso la Biblioteca di Alessandria,ricavandone dati a sufficienza per misurare,con buona approssimazione,la circonferenza della terra.
Pitea grazie ai babilonesi,imparò ad usare lo gnomone e a consultare le stelle per orientarsi;e quando osservò lo spettacolare fenomeno del sole a mezzanotte,dimostrò,senza ombra di dubbio,che i suoi viaggi erano stati reali,non di certo un parto della fantasia.Plinio e Diodoro Siculo,osservatori del passato,lasciarono scritto che senza Pitea non avrebbero mai conosciuto una parte di mondo che molti antichi descrivevano solo con la fantasia,popolati di mostri e pericoli spaventosi.Un grande viaggiatore e un grande osservatore,che spalancò una porta sull’ignoto.

Il furto della Gioconda

Leonardo Da Vinci, massimo genio espresso dal genio italiano, probabilmente avrebbe voluto conoscere Vincenzo Peruggia da Dumenza, cittadina di poche anime sulle sponde del lago Maggiore; non un’artista, ma un umile decoratore, di quelli che faticano a portare a casa la pagnotta.

 Perché Leonardo avrebbe dovuto o voluto conoscere un oscuro imbianchino, come lo definì la stampa degli inizi del 1900? Semplicemente perché Peruggia riuscì in un’impresa incredibile, che tenne con il fiato sospeso coloro che amavano l’arte, il direttore del Louvre, la polizia francese e la gran parte dell’opinione pubblica dello stesso paese con un’impresa folle, ma geniale allo stesso tempo, sia per il modo in cui venne compiuta, sia per le modalità di realizzazione: il furto del ritratto di Monna Lisa Gherardini, universalmente conosciuto come La Gioconda.

 La mattina del 21 agosto 1911 era un lunedì, una giornata torrida, di quelle tipiche parigine, senza vento e con un’afa che tagliava il respiro;Vincenzo Peruggia, che all’epoca dei fatti non aveva ancora compiuto 30 anni, si diresse con passo svelto verso il Louvre, che conosceva abbastanza bene per averci lavorato tempo addietro, come addetto alla sistemazione di una teca di vetro che doveva preservare il celeberrimo dipinto di Leonardo dalla polvere e dall’umidità. 

In mente, un’idea folle, quella di rubare la Gioconda, quadro simbolo, con la Tour Eiffel, di una città e di una nazione.

Un quadro che era in Francia dal 1516, da quando cioè era stato acquistato per una cifra impressionante, 4000 ducati d’oro, da parte del re Francesco I, presso il quale il genio toscano visse gli ultimi anni della sua tribolata vita, prima di spegnersi nel castello di Amboise il 2 maggio del 1519.

 Peruggia aveva, in qualche modo, organizzato il tutto con cura, pur nel dilettantismo assoluto del suo tentativo; la sera precedente, la domenica del 20 agosto, era uscito con degli amici, e aveva trascorso la serata in un caffè parigino, fingendo di ubriacarsi a tal punto da essere poi multato per schiamazzi notturni. Si era quindi costruito anche un alibi; il lunedì mattina di buon ora, all’incirca alle 6 e mezza, sgattaiolò dalla sua stanza che divideva con un compatriota, diretto alla Cour Carree, il padiglione del Louvre dov’era custodito il dipinto. Il quadro di Leonardo è un dipinto a olio su legno di pioppo che misura 77×53 cm, misure quindi decisamente contenute, tuttavia tali da essere comunque un ingombro e fatalmente anche abbastanza visibile.

 Ma quel giorno a Peruggia andò tutto liscio come l’olio; arrivò al Louvre, sommariamente custodito da un guardiano che spesso, la mattina presto, dormiva della grossa, abitudine che il Peruggia conosceva perfettamente, si diresse verso il dipinto, lo staccò dalla parete, lo mise sotto il giubbotto che indossava e andò via indisturbato, senza essere visto da nessuno.
 Pochi minuti dopo era nel suo appartamento, nel quale il compagno di stanza dormiva pacificamente. Il tempo di nascondere sotto il letto la Gioconda, poi andò giù lentamente per le scale, simulando una sonnolenza post sbronza.
 L’astuto italiano fece in modo di essere visto dalla portinaia, alla quale raccontò di essere ancora sotto gli effetti della sbronza del giorno prima.
 Poi si diresse verso il Louvre; qui regnava il caos, con poliziotti e agenti della gendarmeria che correvano avanti e dietro per le stanze del Louvre, mentre la notizia si diffondeva in un batter d’occhio in città. 

Era stato un pittore, Louis Beroud, ad accorgersi della sparizione; si era recato per fare una copia del dipinto, aveva sistemato il suo cavalletto con la tela, aveva alzato gli occhi e con sorpresa aveva visto che la Gioconda non era al suo posto.

Un’ondata di commozione, mista ad ira e orgoglio patriottico scosse la Francia; vennero istituiti posti di blocco, controllati ricettatori, ambienti della malavita. 
Tutto inutilmente; venne interrogato anche il poeta Apollinaire, che non aveva alcuna simpatia per le opere rinascimentali, che considerava nemiche della vera arte, quella dell’art nouveau. 
Venne interrogato e fermato come indiziato, per lo stesso motivo, e per l’amicizia che lo legava ad Apollinaire anche Pablo Picasso. Vennero perquisite tutte le abitazioni dei dipendenti del Louvre, poi anche quelle di coloro che in qualche modo avevano collaborato ai lavori di manutenzione del museo. 
Così accadde che il Prefetto di Parigi andò personalmente a perquisire l’abitazione del Peruggia, senza trovare traccia del dipinto, che si trovava, ironia della sorte, sotto il tavolo sul quale scrisse il verbale di ricognizione.

 Nei successivi due anni, la polizia, la gendarmeria, spinte dall’opinione pubblica e dalle autorità, non smisero un secondo di cercare il dipinto, che tuttavia sembrava essersi volatilizzato. 

Probabilmente, se il furto fosse stato compiuto su ordinazione, o da qualcuno meno ingenuo del Peruggia, il mondo non avrebbe rivisto mai più il capolavoro di Leonardo; accadde invece il contrario, con modalità altrettanto assurde quanto quelle della sparizione. 

Vincenzo Peruggia scrisse una lettera , a firma “Vincent Leonard” , all’ antiquario fiorentino Alfredo Geri, proponendogli la vendita del dipinto di Leonardo da concordarsi durante un appuntamento all’ albergo “Tripoli e Italia” .
 Aveva scelto, per sua sfortuna, la persona sbagliata; l’antiquario chiamò Giovanni Poggi, direttore degli Uffizi, che confermò l’autenticità del dipinto e chiamò i carabinieri, che arrestarono Peruggia e recuperarono la Gioconda.


La notizia del ritrovamento arrivò in Francia come un fulmine, suscitando enormi entusiasmi; nel frattempo, Peruggia veniva interrogato dalle autorità, alle quali raccontò di aver agito per puro spirito patriottico.
 Aveva sottratto il dipinto ai francesi per restituirlo all’Italia, alla quale, secondo lui, era stata illecitamente sottratta, e sopratutto per vendicarsi dei francesi, che lo dileggiavano con il nomignolo di mangia spaghetti. 
Le cose, evidentemente, non erano andate così, ma i giornali che riportarono le dichiarazioni del Peruggia, riuscirono a convogliare un’ondata di simpatia attorno all’uomo, tanto che la condanna inflitta dai giudici, incaricati di giudicare i fatti, fu eccezionalmente mite. 
Il verdetto, emesso dopo il processo celebrato il 4 e 5 giugno 1913 a Firenze, condannò Vincenzo Peruggia ad un anno e 15 giorni di reclusione, che l’uomo scontò per intero.

I falsi diari di Hitler


La storia incomincia nel 1983,quando Gerd Heidemann viene contattato da un pittore, Konrad Kujau,che,in via confidenziale,racconta al giornalista di essere in possesso dei diari autografi del Fuhrer,scritti tra il 1932 e il 1945
Sessantadue volumi,in tutto,recuperati da un aereo precipitato a Börnersdorf,piccolo centro vicino a Dresda,nell’allora DDR.
Kujau chiede una somma enorme per la vendita dei diari di Hitler:10 milioni di marchi,all’incirca 10 miliardi delle vecchie lire. Heidemann parlò con i suoi capi,al giornale Stern,chiedendo il permesso di poter trattare l’affare.
I dirigenti,pur perplessi,diedero il via libera al giornalista,chiedendo prima che sottoponesse i diari a qualche storico autorevole,che ne avallasse sia l’autenticità che il valore storico.
Il giornalista si rivolse a Hugh Trevor-Roper,direttore del Times Newspaper,personaggio dal passato adamantino,che alla fine della guerra era stato incaricato dal governo di sua maestà di descrivere gli ultimi dieci giorni della vita di Hitler per confutare le pretese sovietiche che Hitler fosse ancora vivo,e che aveva poi scritto dei libri sul Fuhrer.
Trevor Roper studiò i diari,e durante una conferenza stampa tenuta nell’aprile del 1943,dichiarò pubblicamente: « Sono sufficientemente certo che i documenti sono autentici.
Tuttavia non tutti condividevano l’ottimismo dello storico,e molti,prima di esprimere un parere,decisero prudentemente di attendere l’esito delle perizie effettuate sulla carta,sull’inchiostro e sulla grafia di diari.
Ed ebbero ragione. Il 5 maggio l’esito delle perizie non lasciò nessun margine al dubbio:carta e inchiostro erano da attribuire ad un periodo molto posteriore alla fine della seconda guerra mondiale.
Non solo; i diari altro non erano che un resoconto di alcuni dei discorsi pubblici di Hitler,con aggiunti piccoli particolari inediti ma assolutamente marginali;in più l’autore dei falsi aveva grossolanamente sbagliato anche il monogramma di Hitler. Lo scandalo travolse la dirigenza del giornale Stern,mentre Heidemann e Kujau vennero arrestati con l’accusa di aver ordito una colossale frode.
Una pagina del diario Kujau confessò immediatamente di essere l’autore dei falsi diari;era considerato un falsario abbastanza esperto.
Il falsario se la cavò con una condanna mite,e quando uscì dal carcere trovò modo anche di guadagnarci su,raccontando il modo in cui aveva ordito la truffa. Viceversa,Heidemann,accusato di aver intascato parte della somma pattuita per l’acquisto dei diari,si prese una condanna più dura.
E va detto,ingiusta. Il giornalista aveva agito in buona fede,come testimoniato in seguito da alcune registrazioni di telefonate,che però non furono ammesse come prova a discarico durante il processo.
Heidemann morì nel 2000,e oggi i suoi eredi hanno chiesto la revisione del processo.
Trevor Roper vide clamorosamente macchiata la sua reputazione,mentre incredibilmente,un falso diario dei 62 originari è stato battuto ad un’asta per la somma di 6000 euro.

I piombi di Venezia


Piazza san Marco,a Venezia,era il fulcro della vita sociale e politica della città. Vi sorgeva il palazzo dogale,sede del Doge e del consiglio della Serenissima,l’organismo supremo di controllo politico e di amministrazione della giustizia della città.

 Una giustizia che era distribuita con severità, se si pensa al terrore che provocavano nei condannati le pene detentive da scontare nei piombi,le famigerate carceri veneziane.

Costruiti nei pressi del palazzo dogale,e collegati ad esso dal famoso Ponte dei sospiri,i piombi prendevano il loro nome dal rivestimento del tetto del palazzo,che creavano,soprattutto d’estate,un clima torrido e malsano all’interno delle anguste celle.

 Vennero ultimati nel 1610,e divennero,da allora,lo spauracchio di era condannato a soggiornarvi;a parte il calore provocato dalle lastre di piombo,che d’estate si arroventavano,vi erano condizioni di vita al limite della sopportabilità.
 Umidità,topi,regime alimentare ridotto allo stretto necessario,spazi angusti,mancanza di luce e divieto di detenzione di lucerne,giacigli in nuda pietra,rendevano l’espiazione della pena un autentico calvario.

I condannati illustri ne seppero qualcosa;qui Silvio Pellico,piegato dalla dura prigionia,stese la sua opera più famosa,Le mie prigioni;qui vi furono imprigionati patrioti come Orsini e Maroncelli;e vi venne incarcerato anche il conte di Cagliostro,prima di terminare i suoi giorni nella rocca di San Leo.

 Il prigioniero più celebre che vi fu rinchiuso fu anche uno dei pochissimi che riuscì ad evadere:Giacomo casanova.
 Il grande avventuriero e seduttore veneziano venne condannato a 5 anni di detenzione nei piombi nel 1755,su ordine dell’inquisizione,per la sua attività violentemente antireligiosa. Casanova,come racconterà nelle sue Memorie,tentò la fuga una prima volta,scavando un buco nel pavimento;scoperto,venne sottoposto ad un regime di controllo ancor più ferreo,ma nonostante tutto,con l’aiuto di padre Marino Baldi,riuscì ad evadere in maniera rocambolesca,passando addirittura per il portone principale.
Cosa che gli valse l’ammirazione delle corti europee che frequentò da allora,oltre ad un posto nella storia.
 Secondo il Romanin,autore di una storia di Venezia,il consiglio dei dieci mandava periodicamente uno dei suoi appartenenti a verificare le condizioni di vita dei carcerati;pare che verificassero soprattutto la tenuta igienica della struttura. 

 Come già detto all’inizio,i piombi erano collegati al palazzo dei Dogi da un ponte,detto dei Sospiri. Venne realizzato agli inizi del XVII secolo su progetto dell’architetto Antonio Contino di Bernardino per ordine del doge Marino Grimani,e prese il suo nome dalla leggenda che voleva che i condannati che transitavano su di esso sospirassero sia perché per molto tempo non avrebbero più rivisto la bellissima Venezia,sia per la futura mancanza di libertà.

Il mito di Dafne



Dafne, figlia e sacerdotessa di Gea, la Madre Terra e del fiume Peneo (o secondo altri del fiume Lacone), era una giovane ninfa che viveva serena passando il suo tempo a deliziarsi della quiete dei boschi e del piacere della caccia la cui vita fu stravolta a causa del capriccio di due divinità: Apollo ed Eros. Racconta infatti la leggenda che un giorno Apollo, fiero di avere ucciso a colpi di freccia il gigantesco serpente Pitone alla tenera età di quattro giorni, incontra Eros che era intendo a forgiare un nuovo arco e si burlò di lui, del fatto che non avesse mai compiuto delle azioni degne di gloria.

Il dio dell’amore, profondamente ferito dalle parole di Apollo, volò in cima al monte Parnaso e lì preparò la sua vendetta: prese due frecce, una spuntata e di piombo, destinata a respingere l'amore, che lanciò nel cuore di Dafne ed un'altra ben acuminata e dorata, destinata a far nascere la passione, che scagliò con violenza nel cuore di Apollo.

Da quel giorno Apollo iniziò a vagare disperatamente per i boschi alla ricerca della ninfa, perchè era talmente grande la passione che ardeva nel suo cuore che ogni minuto lontano da lei era una tremenda sofferenza. Alla fine riuscì a trovarla ma Dafne appena lo vide, scappò impaurita e a nulla valsero le suppliche del dio che gridava il suo amore e le sue origini divine per cercare di impressionare la giovane fanciulla.




Dafne, terrorizzata, scappava tra i boschi. Accortasi però che la sua corsa era vana, in quanto Apollo la incalzava sempre più da vicino, invocò la Madre Terra di aiutarla e questa, impietosita dalle richieste della figlia, inziò a rallentare la sua corsa fino a fermarla e contemporaneamente a trasformare il suo corpo: i suoi capelli si mutarono in rami ricchi di foglie; le sue braccia si sollevarono verso il cielo diventando flessibili rami; il suo corpo sinuoso si ricoprì di tenera corteccia; i suoi delicati piedi si tramutarono in robuste radici ed il suo delicato volto svaniva tra le fronde dell'albero.

Dafne si era trasformata in un leggiadro e forte albero che prese il nome di LAURO



La trasformazione era avvenuta sotto gli occhi di Apollo che disperato, abbracciava il tronco nella speranza di riuscire a ritrovare la dolce Dafne.

Scrive Ovidio nelle Metamorfosi (I, 555-559): "Apollo l'ama, e abbraccia la pianta come se fosse il corpo della ninfa; ne bacia i rami, ma l'albero sembra ribellarsi a quei baci. Allora il dio deluso così le dice:"Poichè tu non puoi essere mia sposa, sarai almeno l'albero mio: di te sempre, o lauro, saranno ornati i miei capelli, la mia cetra, la mia faretra".

Il dio quindi proclamò a gran voce che la pianta dell'alloro sarebbe stata sacra al suo culto e segno di gloria da porsi sul capo dei vincitori.


Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...