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sabato 3 maggio 2014

Il mio Presidente in una intervista di Montanelli ......Un politico ma sopratutto un UOMO



Il 18 luglio del 1978, venne eletto Presidente, Sandro Pertini, nato a Stella San Giovanni in provincia di Savona nel 1896. Ateo stimato dai credenti, progressista rispettato dai conservatori, ricevette un plebiscito di preferenze, 832 su 995, che fino ad allora nessuno aveva mai ottenuto.
In seguito, Pertini entrò nei cuori delle persone, al punto da essere ancor oggi considerato il Presidente più amato dagli Italiani. Tenacemente onesto e sincero, volle soprattutto essere un integerrimo custode della Costituzione.
Arrivato per una visita nel suo paese natale nel gennaio del 1979 disse ai giornalisti al seguito, che gli chiedevano sulla situazione del Paese, "Oggi non voglio parlare di politica. A ogni giorno la sua fatica.
Questo è un momento particolare, son venuto qui per ritrovare la mia gente."
Era arrivato scortato da due ali di folla, in una giornata fredda e gelida, un vento sferzante, la neve raccolta ai bordi della strada.
Lo aspettavano all'ingresso del paese che si affaccia sulla strada. Pertini portava una sciarpa bianca e un basco blu in testa che si levò solo sulla pedana, mentre il sindaco gli porgeva i saluti della cittadinanza.
Sotto il palco Pertini riconosceva tutti i suoi compaesani, li chiamava per nome e rispondeva in dialetto, ricordava alla folla che qui, nel 1919, aveva fatto il consigliere comunale.
Poi nella stessa visita andò a trovare la sorella Marion che aveva all'epoca 80 anni.
Tutti in paese a ricordarlo con gli occhi lucidi dall'orgoglio, come una persona semplice, come uno di loro.
Tutti a giurare che non era mai cambiato.
Per dare l'idea di chi era Sandro Pertini, ecco una sua intervista fatta da Enzo Biagi e apparsa sulla Stampa di Torino nell'aprile del 1973.
Nell'intervista il futuro Presidente Pertini si confessa al grande giornalista in tutta la sua umanità, in modo molto toccante. L'intervista cominciava così: "Nei verbali dei poliziotti l'avv. Pertini Alessandro, fu Alberto, residente a Savona.
E' stato condannato sei volte; quindici anni tra carcere e confino. Una mattina, passando per caso davanti a un vetro, scopre di avere i capelli grigi.
Una sera rabbrividisce per la febbre; è un attacco di tubercolosi.
Lo informano che sua madre, disperata, ha chiesto la grazia al duce. Le scrive con durezza: « Qui, nella mia cella, di nascosto, ho pianto lacrime di amarezza e di vergogna ».
L'isolamento gli ha tolto la voce.
Non perde mai il senso della dignità.
Anche con l'abito del galeotto è sempre inappuntabile.
Ogni notte, perché rimangano stirati, infila i pantaloni sotto il pagliericcio.
E' a Regina Codi, sa che i tedeschi intendono fucilarlo: ma niente tradisce le sue emozioni.
Quando scappa in Francia fa il muratore, l'imbianchino, lava i tassì. Ha due lauree, in Legge e Scienze Politiche.
Qualche volta si confida: «Io dovevo morire nel 1945».
Ha scritto Montanelli: «Qualunque cosa dica o faccia odora di pulizia, di lealtà».
Ha detto Malagodi: «Un uomo politico senza macchia di equivoci e di sotterfugi».
Non può piacere a tutti: questo è un momento in cui la protesta si fa, soprattutto, coi manifesti e i necrologi;
«Socialista d'altri tempi, patetico, don Chisciotte», dicono.
La conversazione si svolge nel suo studio, a Montecitorio. Parla pacato; soltanto in qualche momento si avverte una incrinatura.
Ci sono fatti, o giudizi, che ancora lo offendono. Ma è pena, non rancore.
Chiedo: «Se ripensa alla sua vita, lunga e combattuta, qual è il bilancio?».
«Se per un prodigio dovessi ricominciare, riprenderei la strada scelta quando ero poco più di un ragazzo, e sapendo anche che guai è il conto da pagare.
Uno studente mi ha domandato: "Lei è deluso?". No. Anche all'ergastolo, a Santo Stefano pensavo con orgoglio: "Qui c'è stato Settembrini",
Quando ero operaio, e la paga era insufficiente, o non trovavo lavoro, mi consolavo: "Adesso sai come vivono tanti tuoi compagni". Non mi sono mai pentito. "Mi guardi: no» so mentire. Certo, molle speranze sono state spente. Non ci siamo battuti per questo, per arrivare fin qui.
Ma non cambìerei nulla. Sono abituato ad assumere le mìe responsabilità. Ho sempre impedito che i miei complici venissero portati in giudizio. Sono sempre andato solo sul banco degli imputati.
"Chi le ha passato questo passaporto falso?" chiedevano. "Chi ha messo i timbri?", "lo" rispondevo. «No, quando dopo la sentenza gridai: "Viva il socialismo!" non fu un gesto romantico, come hanno scritto.
Se vuoi demolire un politico non dire che è ladro o disonesto, dì che è un sentimentale. Siti giornali, apparivano ancora brevi resoconti dei tribunali speciali. Ed erano sempre comunisti, o anarchici, quelli che riaffermavano le loro convinzioni. Io pensavo:
"Adesso ci sei, e devi fare il tuo dovere". E così urlai; e quando passai davanti al presidente Trigalli Casanova, sorrisi. E il maresciallo dei carabinieri che comandava la scorta mi disse: "Bravo. Non ci si piega. Mio padre era seguace di Turati. E' la prima volta che, qui dentro, si è sentito inneggiare al socialismo". Il Corriere ne diede notizia.
C'era con me un altro antifascista, si chiamava Cattaneo. Quando mi portarono via disse: "Chissà se ci incontreremo ancora?". E' morto dentro ». «Ha commesso degli errori? ».
«Sì, ho un carattere passionale, e ho fatto qualche sbaglio di valutazione.
Mi rammarico, ad esempio, di avere, durante i congressi, attaccato con violenza qualcuno che non la pensava come me; potevo essere più sereno».
«Che ne pensa del comune declino di due suoi amici, Nenni e Saragat, che psi e psdi hanno collocato quasi tra i simboli, come per liberarsene? ».
«E' la crudeltà dei partiti. Loro, sono come certi innamorati: non posso vivere né senza di te né con te».
«Degli uomini che ha incontrati, chi ricorda di più? » «Ho molta ammirazione per Gramsci, e non è vero che fosse freddo, aveva una grande umanità. Lo conobbi nel 1931, nella prigione di Turi di Bari, e lui subito si avvicinò a me.
Intanto, i nostri due partiti, all'estero, si sbranavano. Aveva ricevuto dalla cognata, che era impiegata all'ambasciata russa, un pacco, e chiese al direttore, il giorno di Pasqua, di permettermi di passare la festa con lui.
Voleva che aderissi al pc, ma gli spiegai che non era possibile: non ci può essere giustizia sociale se non c'è libertà.
Non esiste riforma capace di costituire materia di scambio. Gramsci si sentiva avvilito, era stato isolato dai suoi: "Non comprendono la mia posizione", diceva. Stava male, perdeva sangue.
Dormiva due o tre ore. Le guardie sbattevano apposta lo spioncino per non lasciarlo riposare. Andai a protestare: "O questa storia finisce, o faccio un esposto al ministero". Figuriamoci. Dopo qualche giorno Gramsci mi disse: "Le cose vanno un po' meglio". « Non mi ha mai parlato di Togliatti, ma di Terracini e di Camilla Ravera (che poi venne nominata senatrici a vita da Pertini n.d.r), con affetto e stima. Criticava Trockij e Bordiga, ma con ammirazione.
Stavo leggendo un libro del rivoluzionario russo, e lui mi disse: "Come scrive così parla. Quando arrivava col Treno Rosso e si rivolgeva alla folla, anche i vecchi e gli invalidi correvano ad arruolarsi". Gramsci si esprimeva lentamente, cercava il termine esatto. Mi raccontò di Gobetti; ne parlò come di un giovane molto sensibile, che una sera andò a trovarlo all'Ordine Nuovo, per mostrargli un corsivo di Ottavio Dinaie che lo criticava con acredine, e si mise a singhiozzare; Gramsci dovette sostituirlo nella rubrica teatrale».
«Quando annullò la domanda di grazia presentata da sua madre, che cosa c'era in lei? Orgoglio per le sue idee, disprezzo per chi l'aveva condannato?».
«Scrissi a mia mamma una lettera crudele: "Ti considero morta". Per due o tre mesi non volli incontrarla.
Ero molto malato, ma mi avevano assicurato che non si sarebbe lasciata andare a nessuna debolezza. Avrei contraddetto me stesso con un atto di sottomissione, Mussolini non era cretino, e sapeva che poi il beneficiato sarebbe stato distrutto dai suoi. C'era con me un comunista, quasi analfabeta, gli insegnavo io la grammatica, sul testo del Lipparini, e mi raccontò: "E' venuta Irma, lei e i bambini sono alla fame, ha chiesto per me il perdono, glielo hanno, consigliato, le hanno detto che avrò anche un posto al paese".
Poi si mise a piangere: "Ma non posso, non lo faccio, tradirei i miei compagni"».
«C'è un personaggio che lei ha conosciuto bene e che oggi è molto discusso: Togliatti. Come lo giudica?». «Quando uno è morto è facile dirne bene o male. Togliatti non sentiva la Resistenza come noi che eravamo al Nord; chi è in guerra, in trincea, non ha le stesse reazioni di chi sta in città. Anche Nennni, anche Buozzi rivelavano, credo, lo stesso atteggiamento, lo stesso stato d'animo. Era freddo, qualcuno dice anche cinico. Scrisse un articolo contro Saragat dicendo che prendeva soldi dagli americani; ero direttore dell' Avanti! e lo difesi. Quando incontrai Togliatti, mi disse: "Ti ho mandato una lettera che devi pubblicare, tu proteggi un venduto". "Io, replicai, dissento da Saragat, non approvo la sita posizione, ma non ti posso permettere di dire questo"».
«Che cosa è per lei il socialismo?». «Il riscatto dell'uomo da ogni catena di carattere ideologico, economico, confessionale.
Deve essere padrone dei suoi pensieri e dei suoi sentimenti, protagonista del lavoro, non strumento».
«E il fascismo?». ' « La negazione della dignità umana ». «Quali sono i difetti e le qualità degli italiani? Chi siamo?». «Sono italiano in tutto e amo molto il mio popolo: peccati e virtù. Non lo considero superiore agli altri, ma non lo riconosco inferiore agli altri. E' spesso soggetto all'esaltazione ma è anche generoso.
C'è sempre uno tra noi che si fa accoppare per una causa giusta ». «Cosa c'era di buono nel passato; e oggi? ». «Oggi abbiamo questa democrazia che stentatamente cammina. I giovani sono delusi, questi scandali umiliano il Paese. Il psi in passato aveva dei dirigenti che erano grandi galantuomini: bisogna dire a tutti che chi è canaglia nella vita politica lo è anche in quella privata ».
«Lei crede, è religioso?». «No, ma rispetto la fede di mia madre. I Vangeli sono per me una sorgente di verità eterne ». «Cosa pensa della morte? ».
«Credo si preoccupi di morire chi non hà vissuto bene.
Molte volte mi sono trovato di fronte a quel momento risolutivo: per malattia, per volere degli altri. Sento che l'accetterei tranquillamente».
«Qual è il gesto più gentile che ha ricevuto?». «Ero nelle Marche, durante un'azione partigiana, c'era tanta neve, avevo addosso un febbrone che mi divorava, non sapevo dove rifugiarmi, fui ospitato in una povera casa, c'erano marito e moglie, mi diedero il loro letto, mi curarono, non accettarono niente». «E l'offesa più grave?». «Quando, nel 1948, dopo essermi battuto contro il Fronte, contro la lista unica coi comunisti, diffusero la voce che ero un traditore della classe operaia.
Quella notte piansi». «Si è mai sentito vinto?».
«No. Anche in prigione, ero lì per le mie idee, e non ero solo ». «Le doti che più apprezza?». «Lealtà, onestà, coerenza». «E le miserie più spregevoli? ». «La superbia, la presunzione, l'invidia». «Cosa vorrebbe dicessero di lei? ». «E' stato un uomo che non ha mai tradito i suoi ideali, il movimento dei lavoratori e la democrazia ». Per la prima volta, un'intervista finisce con un abbraccio.
Non mi era mai capitato.

Tratto da .informagiovani-italia.com

Il Castello di Sammezzano a Reggello, Toscana


Ferdinando ha una passione, l’architettura, e un’idea: l’arte occidentale deriva da quella orientale.
Litiga con tutti per questa sua bizzarra convinzione che, però, continua a difendere a tutti i costi.

 Ferdinando è il marchese Panciatichi Ximenes d’Aragona ed è ricco, molto ricco. 

Possiede un edificio nel Valdarno, a Sammezzano, parte di un’enorme e antica tenuta di caccia sin dai tempi di Cosimo I de’ Medici, e decide di finanziare un’impresa faraonica: progettare e realizzare un castello in grado di rappresentare e fondere tutti gli stili orientali, dalla Siria, all’India, passando per lo stile moresco.
 Si mette subito al lavoro: assume artigiani locali, alcuni li fa arrivare addirittura dal nord Africa, costruisce una fornace dove preparare la ceramica, progetta un palazzo di 365 stanze e un parco di svariati ettari dove fa piantare specie esotiche (ad esempio le sequoie, che attualmente hanno un tronco di 10 metri di diametro).

 Siamo nel 1853 e, mentre l’Italia è in pieno Risorgimento, Ferdinando in quarant’anni realizza un castello dalle mille e una notte.

 Motto del marchese “Todos contra nos. Nos contra todos” ci dà una vivida impressione del suo carattere ostinato. Ogni stanza del Castello rappresenta uno stile, e lo esprime fedelmente: 

 la Sala Bianca è modellata sull’Alhambra di Granada



la Sala dei Pavoni – ovvero la sala da pranzo – è perfettamente indiana con la riproduzione dello stile moghul





Ci sono molti altri ambienti dai nomi curiosi, come le Sale dei Gigli  


 delle Stalattiti


 Una girandola di colori e forme straordinaria se si pensa che Ferdinando Ximenes d’Aragona non era mai stato fuori dall’Europa, e quell’architettura orientale l’aveva studiata solo sui libri. 
 365 sale come i giorni dell’anno.
 Sono una diversa dall’altra, non esistono ripetizioni, se non l’unica incisione posta in vari punti delle sale, “non plus ultra”, a dimostrazione della straordinaria unicità e originalità del castello e del suo costruttore.
 In questi spazi ampi e concatenati, gremiti di nicchie, di angoli nascosti, di aperture panoramiche, filari di colonne, percorsi quasi labirintici, trionfa la fantasia di un inesauribile campionario colori espresso in capitelli, peducci, archi, portali, volte a ventaglio, cupole, pennaccchi, grondanti ricami di rivestimenti con arabescate filigrane di gesso.


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