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venerdì 18 dicembre 2015

Le rovine di Nan Madol


In una zona remota dell’oceano Pacifico si trova uno straordinario sito archeologico quasi sconosciuto.
 Il suo nome è Nan Madol e partendo dall’Europa o dall’America occorrono decine di ore di volo per raggiungerlo. 
Si trova in Micronesia, su un isola chiamata Pohnpei (Ponapé), situata a oltre 1600 km a est di Guam.
 L’isola e’ distante centinaia di chilometri dalle terre più vicine, ed e’circondata da un’insidiosa barriera corallina che la separa dal resto del mondo. 
Se non si conoscono bene queste acque è difficile raggiungerla incolumi. Bisogna affittare una barca veloce e farsi condurre da persone locali. Dopo circa 45 minuti di navigazione sotto costa si giunge al sito.In prossimità dell’isola l’acqua è poco profonda, bisogna proseguire su una canoa. 

All’improvviso appaiono le rovine.
 Non somigliano a nessuna delle costruzioni antiche conosciute. Le mura ricordano delle capanne di legno ma sono state realizzate con enormi pietre di origine vulcanica. 
Più a largo verso il mare aperto; sorgono imponenti dighe frangiflutti in pietra per proteggere le isole dalla violenza del mare. 

Circa 2000 anni fa questi massi vennero staccati da un rilievo dell’isola di Pohnpei appiccando un incendio. 
Le rocce surriscaldate furono poi raffreddate con l’acqua e in seguito trasportate verso la loro destinazione definitiva.
 Tutto questo accadeva su una sperduta minuscola isola del Pacifico con una popolazione di sole 25000 persone. 
 Ma la cosa più spettacolare non sono le mura.
 Le isolette stesse sono opera dell’uomo.
 In prossimità della riva l’acqua è bassa. Chi costruì Nan Madol usò delle zattere per trasportare la pietra vulcanica e realizzò una miriade di isolotti artificiali.
 Complessivamente secondo gli studiosi vennero costruiti con questo sistema 92 isolotti. 
Si tratta di costruzioni a colonne di basalto esagonali e ottagonali (circa 300.000), disseminate su una lunghezza di oltre 24 km.
 Il tutto è racchiuso da un muro di protezione alto anche 8 metri. 
Il popolo di Nan Madol senza l’ausilio di utensili metallici realizzò un progetto straordinario.
 Sull’isola si incrociano centinaia di canali poco profondi; è come se fosse una Venezia preistorica.












La religione si pensa avesse un ruolo fondamentale nella progettazione di strutture piramidali e tombe imponenti; ma servivano anche capi di grande prestigio per governare.
La stirpe principale riconosciuta su testimonianze tramandate oralmente, riportò la pace tra alcuni clan rivali poi sfruttò la manodopera locale per costruire sepolcri e altre residenze. Nell’antichità ciò accadeva spesso; non faceva molta differenza vivere in Egitto o nel lontano Pacifico.
 C’era sempre un despota che si faceva costruire grandiosi monumenti. 

Dagli esami con il carbonio 14 le costruzioni e risalirebbero al 1180 d. C., ma è una data che sembra troppo recente per questa straordinaria, deserta città di pietra dove i micronesiani odierni non osano inoltrarsi per timore degli spiriti.
 A ritardare l’esigenza di uno studio serio e approfondito posto dalle rovine di Nan Madol, ha contribuito il fatto che uno dei primi ad occuparsene è stato, tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, un personaggio che non godeva di alcun credito presso la scienza ufficiale: il colonnello britannico James Churchward, un cultore di esoterismo.
 Chi fosse interessato ad approfondire l’argomento, può leggere i suoi ponderosi volumi, che sono stati tradotti anche in lingua italiana. 

 Negli anni Trenta del secolo scorso, James O’Connell, un marinaio irlandese, fu abbandonato su Pohnpei.
 Le circostanze dell’arrivo di O’Connell sono poco chiare: nelle sue memorie egli dichiarò di aver fatto naufragio con il John Bull nei pressi di Pleasant Island fino a Pohnpei, raggiungendola in soli quattro giorno. 
Una volta arrivati, scriveva O’Connell, lui e i suoi compagni venero attaccati dai “cannibali” e poco mancò che fossero serviti per pranzo; riuscirono però a distogliere i nativi dai loro propositi (quanto meno così credevano) con una travolgente giga irlandese.


Ma le avventure di O’Connell non erano finite; fu sottoposto a un tatuaggio rituale da una giovane pohnpeiana, che risultò figlia di un capo; poi la sposò, e divenne capo egli stesso. 
Quali siano le esagerazioni di O’Connell (i marinai hanno la tendenza a raccontare storie, e alcuni studiosi lo considerano un mitomane), egli era comunque anche un osservatore attento e curioso.
 Egli fu il primo europeo a chiamare Pohnpei o Ponape con il nome indigeno (nella sua grafia, Bonabee); il primo a dare accurate descrizioni di molti riti e costumi pohnpeiani; il primo a redigere un glossario della lingua locale; infine, il primo ad aver visto le rovine di Nan Madol: i resti di una monumentale cultura risalente a duemila anni fa. 
L’esplorazione di Nan Madol fu il momento culminante dell’avventura pohnpeiana di O’Connell, egli descrisse le “stupende rovine” con minuziosa attenzione, fino al loro misterioso abbandono e al loro tramutarsi in luogo tabù.

 Fonte: bhutadarma.wordpress.com

Le nostre macchine del tempo


"Abbiamo tutti le nostre macchine del tempo. Alcune ci riportano indietro e si chiamano ricordi. Alcune ci portano avanti e si chiamano sogni."

 (J. Irons)

Le stupende bolle di sapone ghiacciate fotografate da Cheryl Johnson


Tutti abbiamo visto quanto siano meravigliose le bolle di sapone e i loro splendidi riflessi.
 Il motivo ha a che fare con l'interazione chimica tra gli ingredienti del sapone e l'acqua all'interno della membrana della bolla.
 La cosa incredibile è che l'acqua in realtà si trova in mezzo a due strati di sapone! Questo non si vede guardando una normale bolla (anche se potete vedere i vortici muoversi sulla sua superficie), ma se le ghiacciamo queste strutture diventano più evidenti perché l'acqua si solidifica nel mezzo, e forma lunghissime catene di cristalli. 

Ecco alcuni scatti meravigliosi ottenuti dalla fotografa Cheryl Johnson:














Credit: https://www.facebook.com/cheryljohnsonnh

giovedì 17 dicembre 2015

L'incredibile struttura del meteorite di Fukang


Fukang è una cittadina del Nord della Cina composta da pochi abitanti, al contrario delle ben più popolose città cinesi.
 Esiste fin dai tempi delle dinastie più antiche, datate pochi secoli dopo la nascita di Cristo. 
Fino a qualche anni fa la città di Fukang era rinomata solo per essere una delle tappe della Via della Seta, l’itinerario che collegava gli scambi commerciali tra l’impero romano e l’impero cinese. Ma negli ultimi 15 anni quest’anonima città orientale ha fatto molto parlare di sé tra gli appassionati di astronomia che da allora l’hanno assalita per studiare quello che sembra un fenomeno dello spazio.
 Nel 2000 infatti, nelle montagne che circondano la città è stato ritrovato un meteorite dall’aspetto incredibilmente anomalo. Anziché opaco o di un colore uniforme, la roccia che è stata chiamata come il meteorite di Fukang presenta una superficie splendente e a tratti trasparente come se nella pietra ci fossero incastonate delle gemme preziose, caratteristiche mai viste prima tra gli scienziati.
 Basta dare uno sguardo alle fotografie in articolo per capire quanto può esser straordinario il materiale di cui è composto il meteorite di Fukang. 
Di solito i relitti spaziali che a volte raggiungono la Terra non hanno questo aspetto e sono molto differenti.


Questo strano meteorite è stato ritrovato da un commerciante, estraneo alla materia, nelle vicinanze della città di Fukang. Ne ha estratta una porzione e portata agli scienziati locali che non si sono accorti della sua particolarità fino a quando non hanno tagliato in due la roccia.
 La struttura interna infatti nascondeva una segreta bellezza che non ha tardato a catturare l’attenzione del resto del pubblico, quando è stato mostrato durante la mostra di minerali più importante al mondo che ogni anno si tiene negli Stati Uniti. 
 Da allora fino ad oggi, il meteorite di Fukang è ancora sotto i microscopi e le lenti di ingrandimento degli specialisti di un’università americana, che hanno anche pubblicato uno studio descrivendone le origini.
 Grazie alle costanti ricerche è stato possibile classificare la sua composizione, che tanto ha meravigliato gli astronomi di tutto il mondo. Ciò che rende il meteorite di Fukang così splendente fino all’inverosimile è la stessa struttura di cui è composto: pallasite, un materiale ferro roccioso che a sua volta contiene gemme di olivina, un minerale dal caratteristico colore verdognolo che variano in forma e dimensione.


La quantità dei due materiali in un frammento di pallasite è casuale, si distribuiscono come a formare un mosaico. Infatti le pallasiti sono considerate una vera e propria gemma dell’astronomia perché sono tra le più belle da un punto di vista estetico.
 A prima vista, sembra proprio un oggetto con cui tutti noi vorremmo rifare i pianali della cucina poiché da un lato ha la resistenza del metallo dall’altro ha la brillantezza dell’olivina. In realtà si tratta di un tipo di meteorite molto raro, considerato che non appena i meteoriti toccano terra si infrangono in mille pezzi. 

Da quando è stato stimato il suo valore, circa 20/30 dollari al grammo, chiunque ha cercato di accaparrarsi una porzione dell’ambito meteorite: al giorno d’oggi è stato diviso tra collezionisti privati, laboratori universitari di astronomia ed esploratori. Ma chiunque avrebbe potuto farsi un viaggetto nelle più remote province cinesi perché ne sarebbe valsa la pena: gli studiosi stimano che la pallasite si sia formata quasi 5 miliardi di anni fa, durante la formazione dei pianeti.

Fonte: curiosone.tv

mercoledì 16 dicembre 2015

California, le misteriose colonne di pietra rosa di Crowley Lake


Attorno alla loro formazione ruota un velo di mistero perché l’origine di queste colonne di pietra rosa che si trovano vicino al Crowley lake, una riserva d’acqua sul fiume Owens in California, è ancora sconosciuta.
 Le colonne sono rimaste per tanti anni nascoste e sono apparse solo quando il livello dell’acqua del lago si è ridotto notevolmente. 
Oggi messe in fila sembrano ricreare un antico tempio, la loro altezza raggiunge anche i 20 metri e intrecciate fra di loro formano dei suggestivi archi visitabili.

 Le colonne che, sono fatte di roccia porosa, sono da qualche tempo oggetto di studio da parte di geologi che ipotizzano siano il risultato della fusione tra l’acqua gelida e la cenere vulcanica sparsa da una catastrofica esplosione avvenuta circa 700 mila anni fa.
 I ricercatori hanno contato più di 5 mila pilastri che variano sia per forma che colore e dimensione. 
Alcune colonne si sono conservate bene nel tempo altre si sono smussate e deformate, il risultato rimane suggestivo ed è quello che vedete in queste immagini.






Dominella Trunfio

In restauro la Torre dell'Orologio di Atene


Sono attualmente in corso i lavori sull'Orologio di Andronico, nell'agorà romana di Atene. 
L'Orologio, costruito tra il 150 e il 50 a.C. su progetto dell'architetto e astronomo siriano Adronico di Cirro (Kirristes, da Kyros, presso l'attuale Aleppo), è a pianta ottagonale ed è conosciuto anche con il nome di Torre dei Venti. 
La storia dell'Orologio di Andronico va dall'epoca romana fino agli Ottomani, quando era sede dei dervisci dell'ordine dei Mevlevi. L'Orologio è una torre ottagonale di quasi 14 metri di altezza, costruita in marmo pentelico su un basamento di tre gradini. 
La copertura conica, di lastre marmoree, conserva la parte inferiore di un capitello corinzio sul quale poggiava un Tritone di bronzo che ruotava su un perno per segnare il vento.


La costruzione ha incuriosito e fatto lambiccare il cervello a generazioni di archeologi.
 Nel 35 a.C. Marco Terenzio Varrone, nell'opera Rerum Rusticarum, descrive la torre indicandola come "La Torre dell'Orologio".
 Probabilmente si trattava di una clessidra ad acqua. Sulla facciata sud della Torre si intravedono i resti di una vasca semicilindrica che era collegata con l'interno, dove si trovavano i serbatoi della clessidra.
 Dunque è probabile che la torre venne costruita con la duplice funzione di segnavento ed orologio ad acqua.


Quest'ultima proveniva, probabilmente dal lato sud della Torre, dalla sorgente Clepsydra attraverso un grandioso lavoro di canalizzazioni. 
Saliva, poi, con un sistema idraulico, fino ai meccanismi che permettevano il funzionamento della clessidra. 
La fonte Clepsydra era chiamata così (il nome significa "ladra d'acqua") perché a volte riforniva e a volte no. 

Già da tempo prima che venisse costruita la Torre dell'Orologio esisteva una clessidra ad acqua nell'Agorà greca, quella più antica, posta nel cuore della città greca, dove si svolgevano i rapporti intellettuali e sociali e dove si amministrava la giustizia e si assisteva a spettacoli teatrali.
 La presenza di un meccanismo, all'interno della Torre dell'Orologio, ha fatto pensare a un orologio idraulico. 
Su ognuna delle facce esterne vi era un orologio solare utile a chi frequentava l'agorà romana.
 Ciascuna delle facce era decorata con una lastra a rilievo con la personificazione dei venti principali: Borea, Cecia, Apeliote, Euro, Noto, Libeccio, Zefiro e Scirone. 

La Torre è, però, molto fragile.
 I primi lavori di restauro furono effettuati tra il 1915 e il 1919 su progetto di Anastasios Orlandos; altri restauri furono effettuati nel 1976.
 Nel 2003 si è provveduto ad impermeabilizzare la copertura e sono cominciati gli interventi di restauro e valorizzazione.
 La struttura ha numerosi danni e presenta un cattivo stato di conservazione delle lastre del fregio, nonché numerose fessurazioni nei marmi.
 Le operazioni di restauro, che riguarderanno sia le superfici esterne che quelle interne del monumento, saranno un'ottima occasione per conoscere meglio il monumento. Sono state, infatti, rinvenute pitture parietali di soggetto sacro dopo la rimozione dei restauri precedenti. 
In epoca bizantina, infatti, si sa che la Torre aveva un impiego ecclesiastico.
 Il restauro rispetterà gli interventi ottomani all'interno della Torre.

 Fonte: http://oltre-la-notte.blogspot.it/

lunedì 14 dicembre 2015

L’arma segreta dei nazisti


A New York, nel dicembre 1944 si sparse improvvisamente la voce di un attacco tedesco ormai imminente sulla metropoli, guidato da dischi volanti che trasportavano armi atomiche. Contemporaneamente il New York Times riportò la notizia di una “misteriosa sfera sospesa in aria” e pubblicò foto di oggetti non identificabili che sfrecciavano a evidente, altissima velocità. Secondo l’articolo alcuni londinesi avevano visto questi dischi passare a volo radente sotto i ponti del Tamigi. 

Oggi si sa che quelle paure non erano del tutto infondate. I nazisti stavano davvero lavorando a nuove armi fantascientifiche.
 E tra queste c’erano anche i dischi volanti. 
 Gli eserciti alleati erano sbarcati in Normandia un anno prima, il Fronte occidentale tedesco era ormai prossimo al crollo definitivo ma, nonostante questo, gli americani temevano che i tedeschi riuscissero a evitare la sconfitta imminente ricorrendo all’uso di armi segrete prodigiose.
 La macchina propagandistica di Joseph Goebbels, ministro della Propaganda, aveva l’obiettivo di convincere la popolazione tedesca a credere sino all’ultimo nella “vittoria finale”. 
 Ma questa propaganda sembrava avere presa anche tra le file nemiche. 
Hitler non aveva d’altronde lanciato, pochi mesi prima, dal settembre 1944, su Londra i leggendari missili V2, progettati da Wernher von Braun (poi artefice delle prime avventure spaziali della Nasa)? 
Erano missili spaventosamente efficaci: eludendo gli schermi dei radar, raggiungevano l’obiettivo in soli 5 minuti dal lancio, senza che fosse in alcun modo possibile prevederne l’arrivo.


Nella propaganda nazista, la lettera “V” della sigla “V2” corrispondeva all’iniziale di vergeltung, rappresaglia.
 Anche se alla fine della guerra le cosiddette armi “V” (tranne ovviamente la V2) non sarebbero state ancora tecnicamente pronte per l’uso, in alcuni casi erano dotate di un grande potenziale, tanto che Stati Uniti e Unione Sovietica si basarono su queste ricerche per realizzare negli anni successivi i missili intercontinentali e i missili cruise.
 Altre armi “V”, invece, servirono fin dall’inizio solo a soddisfare le fantasie del quartier generale del führer.
 A questo scopo, il cosiddetto “disco volante del Terzo Reich”, noto anche con la sigla “V7”, svolse un ruolo particolare.


Dopo la sconfitta aerea nei cieli inglesi nel 1940, Hermann Göring, ministro del Trasporto aereo, era sotto pressione.
 Nel 1941 chiamò a raccolta tutti gli esperti del settore, esortandoli a lavorare a nuovi sviluppi che assicurassero la supremazia aerea alla Germania.
 E fu qui che nacque il mito del disco volante come arma segreta. Nella fase di progettazione, infatti, fu importante il ruolo svolto dal modello di un velivolo discoidale a decollo verticale, che il giovane costruttore Andreas Epp e il suo mecenate Ernst Udet, leggendario asso dell’aviazione tedesca, avevano presentato poco tempo prima a Göring.
 Sull’idea lavorarono in contemporanea due squadre separate: il tedesco Richard Miethe, ingegnere aeronautico, e l’italiano Giuseppe Belluzzo, specialista in turbine, nelle fabbriche di aerei di Bratislava e Dresda.
 I colleghi Otto Habermohl e Rudolf Schriever nelle fabbriche Skoda a Praga. 
I primi a raggiungere l’obiettivo furono quelli del gruppo di Praga. Nel marzo del 1944 portarono a termine con successo il primo collaudo. 
Sul volo inaugurale furono scritti i resoconti più disparati: secondo alcuni, il velivolo aveva volato a oltre 2.000 km orari; secondo altri, aveva solo accennato al volo con un paio di balzi incerti. Certo è che il ministero della Propaganda esaltò l’avvenimento e annunciò lo sviluppo di nuove armi di straordinaria potenza. 
E quella fu l’ultima volta che i nazisti accennarono al progetto “dischi volanti”.
 Che cosa c’era di vero? 
La maggior parte dei documenti sul disco andarono poi persi o distrutti negli ultimi anni caotici di guerra, mentre i misteriosi 15 mesi di volo di prova prima dell’armistizio bastarono per diffondere il mito dei dischi volanti super-veloci.
 Per Peter Pletschacher, storico dell’aviazione, si trattava in realtà solo di una «sottile guerra psicologica».
 Le velocità dichiarate «a quel tempo erano impossibili, una sciocchezza totale». 
Secondo Pletschacher, lo straordinario effetto che la propaganda ebbe sui nemici fu solo la conseguenza del grande rispetto che gli Alleati nutrivano nei confronti delle capacità tecniche dei tedeschi.


Dopo la guerra il mito dei leggendari dischi volanti del Reich ebbe uno sviluppo autonomo, assumendo forme sempre più strane. Molte delle figure di spicco del regime nazista si erano rifugiate in Sud America e forse per questo cominciò a circolare voce che Hitler e i suoi fedeli avessero raggiunto l’Antartide con i loro velivoli a disco.
 Lì, nascosti in gallerie scavate sotto i ghiacci, attendevano di far ritorno in Germania.


Il culmine dell’intreccio fantasioso fu raggiunto con il racconto che Hitler si fosse ritirato sulla Luna con i suoi dischi volanti e lì avrebbe atteso il giorno della vendetta.
 Il viaggio nello spazio sarebbe stato reso possibile da una nuova, straordinaria tecnica di propulsione, denominata “Vril”, che poteva raggiungere accelerazioni fino a 40.000 km orari. 
 Fantasia e isteria non avevano più limiti. 
Nel 1947, alcuni piloti americani giurarono di aver incontrato oggetti volanti non identificati: gli Ufo. E l’aeronautica militare affermò di essere stata coinvolta in un combattimento con un disco. Così, quando la radio diede notizia dello schianto di un Ufo a Roswell, (Nuovo Messico), si diffuse il panico.
 L’incidente di Roswell si rivelò una bufala: era solo caduto un pallone meteo.
 I sostenitori degli Ufo però non se ne curarono affatto e la città divenne luogo di pellegrinaggio. 
 La paranoia degli Ufo negli anni Quaranta si rispecchiò nella paura gemella degli Uso (Unidentified submarine objects), gli oggetti sottomarini non identificati: velivoli discoidali anfibi, che partivano sott’acqua, emergevano in superficie, si alzavano in volo e poi tornavano in mare. 
Il cacciatore di misteri tedesco Lars Fischinger si è dedicato allo studio del fenomeno e ha passato alla lente d’ingrandimento le decine di apparizioni degli ultimi cinquant’anni. 
Nell’Antartide, ad esempio, l’equipaggio di una rompighiaccio avrebbe osservato alcuni Uso attraversare uno strato di ghiaccio spesso 7 metri. 

 La mania degli Ufo successiva alla Seconda guerra mondiale fu alimentata dagli stessi sviluppatori dei “dischi volanti”. 
Negli anni ’50, Rudolf Schriever raccontò alla rivista tedesca Der Spiegel i collaudi fatti a Praga, con toni reboanti: 
«I dischi volanti non sono un gioco da ragazzi. Hanno un grandissimo significato per lo sviluppo della tecnica di volo». 
 Dal canto suo, Giuseppe Belluzzo, che era professionalmente più qualificato, già nel 1944 aveva avvertito che i velivoli di forma discoidale erano instabili, con un effetto tanto più marcato con l’aumentare delle dimensioni del mezzo. 
Ma il racconto di Schriever aveva ormai avuto effetto.
 In Canada cercarono di ricostruire il disco volante dei nazisti. 
Fu un clamoroso fiasco.
 Da allora dell’arma segreta tedesca non si è più parlato. 

 Fonte: focus.it

La densità della Terra cambia a 1000 km di profondità


Quello che avviene nel mantello terrestre influenza tutto ciò che succede sulla crosta terrestre e nell’atmosfera del pianeta. 
Basti pensare alle eruzioni vulcaniche, che non solo plasmano la crosta della Terra, ma immettono nell’atmosfera i gas che la formano.
 È per questo che conoscere nei dettagli il mantello terrestre è così importante. 
Purtroppo le tecnologie oggi a disposizione non ci permettono di arrivarci con facilità. Anzi, al momento non siamo mai riusciti a penetrarlo in profondità, anche se si stanno organizzando nuove spedizioni scientifiche. 
 La principale strada intrapresa dalla comunità scientifica per studiare il mantello è la sismica, attraverso lo studio delle onde che producono i terremoti oppure le esplosioni prodotte dall’uomo.
 Il modo con il quale viaggiano le onde sismiche permette di definire la composizione chimico-fisica degli strati in cui è suddiviso il mantello. 
Ma il processo è lungo, complesso e non sempre porta a risultati facilmente interpretabili.


Da alcuni anni si segue anche un’altra strada, l'analisi del geoide, ossia la forma del pianeta disegnato dalla forza di gravità esercitata sulla superficie terrestre, la quale a sua volta dipende da ciò che c’è sotto di essa. 
Così, utilizzando i dati dei satelliti che hanno definito con grande precisione la forma del geoide, i ricercatori della Pennsylvania State University (Usa) hanno scoperto che a circa 1000 chilometri di profondità, a partire dalla superficie terrestre, si osserva un salto di viscosità del mantello finora ignoto.
 Spiega Max Rudolph, autore della ricerca: 
«Il passaggio tra i due stati fisici del mantello avviene in modo graduale, anche se in uno spessore relativamente piccolo». 

Diversi motivi giustificano la necessità di approfondire la conoscenza del fenomeno. Innanzi tutto perché spiegherebbe il motivo per cui le placche terrestri che si "immergono" nel mantello dopo uno scontro (il fenomeno è detto subduzione) vengono frenate proprio a circa 800-1000 chilometri di profondità.
 Forse la causa è proprio la diversa viscosità che incontrano.


Un secondo motivo riguarda i "punti caldi" (hot spot), dove la lava sembra arrivare dal confine tra il mantello terrestre e il nucleo. 
Fino a oggi si pensava che la risalita del magma avvenisse più o meno in modo verticale, ora invece il modello andrebbe rivisto in quanto è possibile che quando il magma in risalita trova un livello a viscosità molto diversa, devii la sua direzione e finisca poi in superficie in un punto anche molto lontano rispetto alla verticale del punto di partenza. 

 Fonte: focus.it

La spettacolare foresta fantasma di Neskowin in Oregon


Non siamo sul set di un film di fantascienza.
 La foresta fantasma di Neskowin esiste davvero. Si trova nell’Oregon, in una piccola località costiera tra Lincoln City e Pacific City. 
La foresta fantasma è formata dai resti di un antico bosco di alberi Sitka.
 Il peccio di Sitka è originario della costa occidentale degli Stati Uniti e rappresenta la terza conifera più grande del mondo, dopo la sequoia e l’abete di Douglas. Può raggiungere i 50 metri d’altezza, sino ai 70 o addirittura ai 90 metri in via eccezionale.
 La foresta fantasma era nascosta sotto la sabbia fino a quando una violenta tempesta avvenuta in inverno tra il 1997 e il 1998 ha colpito la costa dell’Oregon. 
La tempesta erose una parte della spiaggia portando alla luce un centinaio di tronchi d’albero. 

 Fino a quel momento, la foresta fantasma aveva rappresentato una vera e propria leggenda.
 I residenti della zona raccontavano che quegli alberi erano comparsi soltanto poche volte nel corso di diversi decenni e solo per breve tempo.
 Dal 1998 però la foresta fantasma di Neskowin è rimasta ben visibile sulla spiaggia. 
I tronchi degli alberi avrebbero ben 2000 anni, secondo le stime dei ricercatori. 
Tra il 1600 e il 1700 uno tsunami generato da un sisma avrebbe avuto ripercussioni sulla costa occidentale degli Stati Uniti, sommergendo la foresta con la sabbia.






Nel corso del tempo il fango trasportato dalle maree ha contribuito a ricoprire gli alberi. 
Ora la foresta fantasma con i suoi tronchi emerge dalle acque oceaniche e dalla spiaggia circostante. 


 Marta Albè

venerdì 11 dicembre 2015

Les Grands Goulets: la terrificante strada dimenticata sulle Alpi Francesi


Anche se dalle immagini potrebbe sembrare una splendida strada panoramica, quella della fotografie è una via pericolosissima, completamente chiusa a causa delle innumerevoli morti che, ogni anno, si verificavano fra curve e tornanti.
 Il suo nome è Les Grands Goulets e fu costruita fra il 1843 e il 1854, realizzando un percorso destinato a diventare leggenda sopra il massiccio del Vercors, una formazione rocciosa delle Alpi del Delfinato.
 Dopo 151 anni di storia questa strada fu definitivamente chiusa dal governo francese nel 2005, a causa dei numerosi incidenti, spesso mortali, che la vedevano involontaria protagonista.


Nel XIX secolo non esistevano strade percorribili per i veicoli trainati da cavalli a a queste altezze, e i 5.000 residenti che vivevano sul Vercors erano completamente, o quasi, isolati dal resto del mondo.
 Fu così presa la decisione di costruire una strada che avrebbe collegato la parte alta del Vercors con la pianura sottostante, un investimento enorme in energia, tempo e denaro.
 Pensare che questa strada fu realizzata senza alcun mezzo tecnologico di cui disponiamo oggi fa assomigliare la sua costruzione ad un’impresa davvero eroica. 
 Dopo numerose centinaia di tonnellate di roccia frantumata e a seguito di undici lunghissimi anni di lavoro la strada fu finalmente pronta, consentendo agli abitanti di collegarsi con il resto del mondo e ai visitatori di raggiungere le splendide vette alpine del massiccio del Vercors.
 Purtroppo la strada divenne rapidamente obsoleta a causa delle dimensioni della sua carreggiata, adatta a veicoli con i cavalli ma non certo alle automobili.
 La strada fu ovviamente asfaltata nei decenni seguenti, ma per lunghe parti non era presente il guard rail, quindi qualunque errore umano avrebbe potuto decretare una morte praticamente certa.

 Per poter chiudere la Grands Goulets, nel 2005 fu inaugurato un moderno tunnel da 1,7 chilometri di lunghezza fra Pont-en-Royans e Les Barraques, che rese la vecchia strada fortunatamente inutile.
Oggi quell’antica via scavata da temerari alpini giace completamente inutilizzata, abbandonata allo scorrere del tempo. Anche se esistono alcune ipotesi che parlano di recuperare la strada per renderla un percorso ciclabile turistico, le probabilità che questo accada sono realmente remote.








Fonte: vanillamagazine.it
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